Terapia

Il trattamento di un paziente affetto da ADHD dell’adulto prevede un approccio multimodale che integra diversi interventi fra di loro: farmacologico, psicoeducazionale, di coaching e psicoterapeutico. Le diverse modalità di intervento devono essere temporalmente e gerarchicamente strutturate secondo il seguente schema:

  1. Terapia farmacologica.

  2. Psicoeducazione

  3. Psicoterapia

  4. Coaching

In considerazione degli elevati tassi di comorbidità fra ADHD e altri disturbi psichiatrici, prima di iniziare qualsiasi tipo di trattamento è importante valutare l’esistenza di disturbi compresenti, in modo da individuare una precisa gerarchia di intervento. Come regola generale, può essere usata quella di curare per primo il disturbo più grave. Ad esempio, disturbi psicotici, disturbo bipolare, abuso di sostanze, disturbo depressivo maggiore e disturbi d’ansia sono solitamente trattati per primi. Al contrario, i disturbi dell’umore e d’ansia meno gravi possono rispondere al trattamento dell’ADHD e, quindi, essere trattati simultaneamente all’ADHD stessa. L’abuso di alcol o sostanze dovrebbe essere stabilizzato prima di iniziare il trattamento, ma nel caso fosse presente può essere trattato anch’esso simultaneamente all’ADHD.

Come per altri distrurbi psicopatologici è verosimile che i fattori genetici determinano la predisposizione per il distrurbo, mentre l’attivazione di tale predisposizione viene modulata anche da fattori temperamentali e fattori ambientali, come nascita prematura, abuso di fumo o alcool da parte della futura mamma, modalità educative scorrette e contesti sociali svantaggiati.

Terapia farmacologica

Le terapie psicofarmacologiche specifiche per l’ADHD dell’adulto si suddividono in due grandi categorie in base all’azione farmacodinamica: stimolanti e non stimolanti. Tali terapie hanno tassi di efficacia molto alti, fino al 70%, e tale efficacia si mantiene fino a quando il paziente assume la terapia: in caso di sospensione i sintomi si manifestano nuovamente. Per questo motivo, un punto critico circa l’efficacia delle terapie psicofarmacologiche nell’ADHD è rappresentato dall’aderenza terapeutica, che può essere compromessa da aspetti tipici del disturbo come la difficoltà a programmare e ricordare l’assunzione del farmaco.

  • Stimolanti: il principale rappresentante di questa categoria è il Metilfenidato. I farmaci stimolanti non migliorano solamente i sintomi specifici dell’ADHD, ma indirettamente vanno ad agire anche sui sintomi da disregolazione emotiva. Gli effetti collaterali sono generalmente lievi e transitori: cefalea, palpitazioni, riduzione dell’appetito, insonnia iniziale e secchezza delle fauci, aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa.
  • Non Stimolanti: l’atomoxetina è un farmaco che, a differenza degli stimolanti, non agisce direttamente sulla dopamina ma inibisce il re-uptake della noradrenalina. Non essendo un farmaco stimolante, l’atomoxetina è associato ad un minor rischio di abuso e, avendo un’efficacia di 24 ore, è sufficiente un’unica somministrazione giornaliera. I possibili effetti collaterali comprendono riduzione dell’appetito, nausea e mal di stomaco con conseguente calo ponderale, sintomi simil-influenzali, rash, astenia, tachicardia, sonnolenza e effetti collaterali della sfera sessuale. Altre molecole non stimolanti sono: bupropione, modafenil, venlafaxina, antidepressivi triciclici.

Nel primo consensus statement europeo (Kooij et al., 2019), gli psicostimolanti (metilfenidato e dexamfetamina) sono raccomandati come farmaci di prima linea nell’ADHD dell’adulto, dati i loro effetti clinici moderati-alti, mediamente maggiori dell’atomoxetina e di altri farmaci non stimolanti. Non ci sono, tuttavia, studi head-to-head che forniscano analisi comparative robuste in termini di differenza di efficacia. In gran parte dell’Europa, la lisdexamfetamina è stata introdotta come formulazione a lento rilascio di dexamfetamina. Una recente mentanalisi che ha confrontato efficacia e tollerabilità delle terapie per l’ADHD nei bambini, adolescenti e adulti, ha concluso che la prima scelta nella terapia in età pediatrica e adolescenziale è il metilfenidato, mentre le amfetamine per gli adulti. Infatti, negli adulti non solo le amfetamine si sono mostrate più efficaci, come dimostrato dalla pratica clinica quotidiana, ma inoltre son risultate ben tollerate quanto il metilfenidato.

Metanalisi e studi clinici controllati e randomizzati hanno dimostrato l’efficacia dei farmaci stimolanti e dell’atomoxetina nel trattamento dell’ADHD dell’adulto, con gli stimolanti che mostrano una maggiore efficacia dell’atomoxetina. Il più lungo studio controllato randomizzato, condotto su adulti, ha mostrato, inoltre, effetti significativi del metilfenidato anche a distanza di un anno. Anche i dati dei registri nazionali suggeriscono effetti terapeutici e benefici a lungo termine, con marcate riduzioni anche degli incidenti stradali, della mortalità, dei comportamenti suicidari, della depressione e dell’abuso di sostanze. Analisi simili condotte sull’uso degli antidepressivi non hanno mostrato tali risultati, dimostrando come tali effetti siano specifici dei farmaci per l’ADHD.

Il metilfenidato a rilascio immediato ha una breve durata d’azione (al massimo 4 ore). A causa di difficoltà nella compliance alle terapie, derivata dalla necessità di assumere metilfenidato a rilascio immediato più volte nell’arco della giornata, è stato sviluppato il METILFENIDATO a rilascio prolungato, con durata d’azione che raggiunge le 6-12 ore. Una metanalisi del 2011 ha rivelato che il metilfenidato (dose media 41.2-82 mg die) esercitava moderati effetti sui sintomi dell’ADHD, con effetti rilevanti osservati a dosi superiori 77.4 mg die.

La dose raccomandata di dexamfetamina a rilascio immediato è di 5-60 mg die. La lisdexamfetamina ha una cinetica a lento rilascio, conferendo alla molecola un rischio di abuso relativamente basso. Viene assunta una volta al giorno con una durata d’azione fino a 14 ore. Tre studi randomizzati controllati su adulti indicano un effetto sui sintomi dell’ADHD moderato-elevato, comparabile al metilfenidato. Il profilo di sicurezza e di tollerabilità è simile a quello degli altri stimolanti.

Il principale effetto avverso degli stimolanti è quello di aumentare la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa, di ridurre l’appetito e disturbare il sonno. Parametri quali frequenza cardiaca, pressione arteriosa e peso sono perciò valutati prima di iniziare il trattamento e controllati periodicamente. Eventi avversi gravi a livello cardiaco sono rari, con rischi di miocarditi, morte cardiaca improvvisa, aritmie ventricolari o infarto non più alti dello 0.2-0.4%. Il metilfenidato può causare aritmie in pazienti con disturbi cardiaci congeniti. Gli studiosi sono concordi sulla necessità di porre attenzione all’impiego di stimolanti in pazienti con disturbi cardiaci noti, ma i rischi sono, tuttavia, da considerare minimi.

Secondo il consensus statement europeo (Kooij et al., 2019) sulla diagnosi e trattamento dell’ADHD dell’adulto, l’atomoxetina ha una efficacia moderata nel ridurre i sintomi dell’ADHD. Un’iniziale risposta alla terapia deve essere valutata a 1-2 settimane di trattamento, ma per una valutazione completa dell’efficacia bisogna aspettare fino a 6 mesi. Se non è necessario un rapido intervento terapeutico, l’atomoxetina può essere una buona scelta per pazienti con ADHD dell’adulto. L’utilizzo di atomoxetina come prima linea in pazienti affetti da abuso di sostanze continua ad esser dibattuta: alcuni esperti preferiscono infatti gli psicostimolanti, grazie al rapido inizio d’azione e agli effetti potenzialmente migliori. Sebbene in passato alcuni studiosi abbiano sottolineato il potenziale rischio di abuso di stimolanti in soggetti con disturbo da uso di sostanze, attualmente ci sono dati sufficienti che dimostrano come l’impiego di stimolanti comporti una riduzione di abuso di sostanze. Un potenziale pratico utilizzo dell’atomoxetina è quello in pazienti che presentano comorbidità con disturbi di ansia. L’atomoxetina non si è dimostrata utile invece nel trattamento di pazienti adolescenti affetti anche da disturbo depressivo.

In Europa, la guanfacina a rilascio prolungato, un agonista alfa2 adrenergico, è approvata per il trattamento dell’ADHD nel bambino e nell’adolescente, per coloro i quali gli stimolanti non sono adatti, non vengono tollerati o si sono mostrati inefficaci.

La clonidina a rilascio prolungato è approvata negli USA per il trattamento dell’ADHD tra i 6 e i 17 anni, in monoterapia o in aggiunta agli stimolanti. Sono stati condotti studi randomizzati controllati sia per la clonidina a rilascio prolungato che per quella a rilascio immediato su bambini e adolescenti affetti da ADHD, ma non ci sono studi equivalenti sugli adulti.

I dati sul bupropione, derivanti da pochi studi condotti su adulti, sono contrastanti. Risultati incoraggianti sono riportati per dosi elevate (400-450 mg die). A causa di una limitata evidenza, il buproprione dovrebbe essere riservato a casi che non tollerano altri principi attivi.

Gli inibitori selettivi della ricaptazione della noradrenalina, come la reboxetina, potrebbero essere un’alternativa all’atomoxetina. Le evidenze sugli antidepressivi triciclici sono limitate. Gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) si sono dimostrati invece inefficaci. Modafinil, un simpaticomimetico utilizzato per il trattamento della narcolessia, non si è dimostrato un trattamento efficace in studi di fase 3 in adulti con ADHD, con elevati tassi di effetti collaterali e drop-out dallo studio, probabilmente derivante dall’impiego di dosi troppo elevate (210-510 mg die).

Spesso si rende necessaria una politerapia farmacologica, vista l’elevata prevalenza di comorbidità nei pazienti affetti da ADHD. Di conseguenza, deve essere preso in considerazione il rischio di interazione tra farmaci:

  • gli inibitori delle monoammino ossidasi sono generalmente controindicati, a causa del rischio di crisi ipertensive;
  • sebbene il metilfenidato sia principalmente metabolizzato dal fegato, le interazioni citocromiali sono rare. Tuttavia, le amfetamine sono metabolizzate principalmente dal citocromo 2D6, rendendo possibili interazioni a questo livello (con inibitori o induttori citocromiali, quali la fluoxetina e la paroxetina);
  • i farmaci che agiscono sul sistema noradrenergico, quali alcuni antidepressivi (come la duloxetina e la venlafaxina), possono avere un effetto additivo e quindi aumentare il rischio di ipertensione e di altri effetti avversi cardiovascolari;
  • a causa del metabolismo a carico del citocromo 2D6, i livelli di atomoxetina possono aumentare in caso di utilizzo di SSRI che vanno ad inibire questo sistema citocromiale (come la fluoxetina e la paroxetina).

ADHD E DISTURBO BIPOLARE

Gli studi di farmaco-epidemiologia hanno evidenziato che la monoterapia con metilfenidato in pazienti con disturbo bipolare può aumentare il rischio di switch a episodio maniacale/ipomaniacale. Tuttavia, il metilfenidato in combinazione ad uno stabilizzatore dell’umore riduce il rischio di induzione di episodio maniacale/ipomaniacale. Questo supporta le attuali raccomandazioni di trattare l’ADHD in pazienti affetti da disturbo bipolare con i farmaci stimolanti in associazione a stabilizzatori dell’umore.

ADHD E ABUSO DI SOSTANZE

I dati attualmente disponibili sull’utilizzo dei farmaci impiegati per il trattamento dell’ADHD e i disturbi da uso di sostanze sono controversi. Alcuni studi hanno evidenziato che la maggior parte dei farmaci impiegati nel trattamento dell’ADHD riducono i sintomi principali di tale disturbo, ma hanno un effetto limitato sul concomitante abuso di sostanze. Altri studi hanno evidenziato una riduzione dell’utilizzo/abuso di sostanze con l’impiego del metilfenidato, con una combinazione di psicoterapia cognitivo comportamentale e Adderal XR e Concerta. Al contrario, gli stimolanti ad azione immediata dovrebbero essere evitati in questa categoria di pazienti. Inconclusione nei pazienti affetti sia da ADHD che da abuso di sostanze, il trattamento per l’ADHD può essere utile nel trattare i sintomi dell’ADHD, senza peggiorare l’abuso di sostanze, e non dovrebbe essere evitato.

ADHD E INSONNIA

Una percentuale significativa di soggetti affetti da ADHD presenta disturbi del sonno di varia natura. Alcuni studi sull’effetto degli stimolanti sul sonno in bambini e adolescenti hanno evidenziato che tali farmaci possono portare ad una aumentata insonnia iniziale, peggiorare la qualità del sonno e diminuire la durata dello stesso. Dati simili sono stati riportati anche per gli adulti. L’attenta titolazione degli stimolanti e gli interventi psicoeducativi sul sonno possono migliorare la qualità dello stesso. Nei bambini con ADHD che presentano una insonnia cronica, la melatonina si è dimostrata utile sia nel facilitare l’addormentamento che nell’aumentare la durata del sonno. Il trattamento dell’insonnia dovrebbe sempre iniziare dall’educazione all’igiene del sonno e dall’ottimizzazione della terapia per l’ADHD. In alcuni casi, una bassa dose di metilfenidato a rilascio immediato (di solito 5 mg) preso al momento di andare a dormire può ridurre l’incessante attività mentale fino ad un livello tale da permettere il sonno.

Psicoeducazione

La psicoeducazione è un vero e proprio addestramento del paziente, che viene informato su tutte le caratteristiche del disturbo di cui soffre. E’un training che attraverso un lavoro cognitivo-comportamentale migliora le competenze e cambia i comportamenti dei soggetti.

Terapia cognitivo comportamentale

Sebbene i trattamenti farmacologici per l’ADHD siano molto efficaci, molti pazienti continuano a sperimentare sintomi significativi e compromissione del funzionamento nella vita di tutti i giorni. Numerose evidenze di letteratura hanno mostrato che la terapia cognitivo-comportamentale, sia essa individuale o in gruppo, è in grado di ridurre i sintomi centrali di tale disturbo, i sintomi associati (disregolazione emotiva, disturbi del sonno, ansia e depressione) e la conseguente compromissione funzionale in differenti aspetti della vita quotidiana. La terapia cognitivo-comportamentale andrebbe utilizzata all’interno di un approccio multimodale in aggiunta alla terapia farmacologica e non come unico intervento terapeutico. La maggior parte degli studi controllati è stata effettuata su pazienti che assumevano terapie per l’ADHD e dimostrano un effetto terapeutico addizionale significativo. Tuttavia, non tutti gli adulti affetti da ADHD desiderano o tollerano la terapia farmacologica e in questi casi la terapia cognitivo-comportamentale può essere un’utile alternativa. I dati di letteratura consigliano approcci fortemente strutturati, che inizino con interventi psicoeducativi e che si focalizzino sulle competenze, sulle abilità di organizzazione e gestione del tempo, regolazione/controllo delle emozioni, abilità di problem solving, competenza sociale e strategie per migliorare la gestione degli impulsi. Oltre ad interventi comportamentali, che richiedono che i pazienti sperimentino nella vita di tutti i giorni le tecniche imparate durante le sessioni terapeutiche, gli interventi psicologici includono anche strategie cognitive, come l’identificazione dei pensieri negativi automatici, metodi per indirizzare gli “errori di pensiero” e l’introduzione di tecniche cognitive ristrutturanti. Ci sono evidenze che sottolineano come le distorsioni cognitive e gli schemi cognitivi disfunzionali correlati all’accumulo di esperienze negative, associate ai sintomi dell’ADHD, contribuiscano allo sviluppo di risposte funzionali negative e portino a condotte di evitamento, orientamento al fallimento, procrastinazione, sintomi depressivi e ansia.

funzionali di vita. Tuttavia, non vi è un metodo standard e il setting attraverso cui il coaching si sviluppa varia in maniera considerevole, andando da visite di persona a telefonate o e-mail. Ad ora, non ci sono studi controllati che valutino l’efficacia del coaching in senso terapeutico negli adulti affetti da ADHD

Coaching

Il mental coaching è una delle discipline di autoconoscenza, consapevolezza di se ed allenamento psicologico ancora non molto conosciuta in Italia, ma che negli ultimi anni viene sempre più utilizzata. Non vi è un metodo standard e il setting attraverso cui il coaching si sviluppa varia in maniera sia in presenza che via web.

Il coach non insegna e non dirige il soggetto ma accompagna e facilita il soggetto nel trovare nuove strategie e nuove dinamiche con le quali il suo potrà affrontare il suo quotidiano, crescere e ampliare le sue capacità. Tutto questo senza interferire in modo diretto, ma con il dialogo ed attraverso l’utilizzo di esercizi “allenamenti” da fare con il coach e da soli. Tale pratica è basata sul “fare” come concetto esperienziale io faccio=io apprendo. Naturalmente il mental coaching per soggetti Adhd, rispetto a quello più tradizionale, deve essere erogato da un Coach che ha ottima conoscenza del disturbo, che sa interagire in situazioni Dop, e che abbia una flessibilità di strumenti molto ampia, dato anche dalle varie comorbilità che ogni soggetto Adhd può presentare. I benefici riscontrati più evidenti sono l’aumento dell’autostima, miglioramento nell’organizzazione quotidiana, aumento del problem solving, miglioramento nella comunicazione e atteggiamento più positivo e più teso all’agire, portando ad un miglioramento della qualità di vita. Ad ora, non ci sono studi controllati che valutino l’efficacia del coaching in senso terapeutico negli adulti affetti da ADHD, ma da alcune casistiche già rilevate negli ultimi due anni forniscono alcuni dati a favore di un effetto positivo di tale pratica. La pratica del mental coaching si differenzia notevolmente quando viene erogata individualmente o in gruppo; individualmente è molto più efficace ed incisiva in quanto vengono prese in esame le varie casistiche della vita quotidiana del soggetto, mentre in gruppo si lavora sulla consapevolezza di sé e su tecniche di gestione più generiche. Analogamente, qualche iniziale evidenza sembra suggerire l’efficacia della terapia cognitiva mindfulness negli adulti affetti da ADHD.